30.4.17

IL SULTANO ERDOGAN



Cosa dire ancora di Erdogan se non il fatto che è l’incarnazione vivente del detto: “Al peggio non c’è mai fine!”. Eh, sì, perché magari in molti pensavano che il dopo referendum (vinto con una stretta maggioranza, ma qualche maligno dice con brogli) magari sarebbe stato un periodo di quiete, di riflessione, di riorganizzazione, invece no; incassati i complimenti da Trump per la vittoria, si è mosso velocemente per assecondare il suo incontrollato bisogno di macellare i Curdi. Il personaggio è complesso, poliedrico, si muove con sfacciataggine su più fronti: tiene sulla corda gli USA per via della base di Incirlik, è socio in affari di Putin nel costruendo gasdotto Turkish Stream, ha in sostanza preso per i fondelli l’Unione Europea concordando la cifra di tre miliardi di euro per tenere prigionieri quanti scappano dalla guerra ed estorcendone altri tre con la minaccia di favorire l’invasione dell’Europa da parte dei migranti e, come se non bastasse, ha anche la sfrontatezza di blandire Damasco in chiave anti curda. Nello scacchiere mediorientale è, al momento, il capo di stato meglio posizionato, in un paese reso, a suon di arresti ed epurazioni di varia natura, una sorta di roccaforte del suo potere personale, sicuramente con un patrimonio privato immenso, nascosto da qualche parte sotto falso o falsi nomi, perché non si sa mai come possano girare le cose di questo mondo (non dimentichiamo i tentativi di qualche anno fa, dell’opposizione, atti a dimostrare che Erdogan era un corrotto, tentativi tutti stroncati in maniera anche violenta). 

In questo quadro di lucida follia, si arriva alla notte del 25 aprile, quando i jet turchi hanno picchiato duro, bombardando in Iraq del Nord e nel Rojava. Chi ne ha fatto le spese, stavolta è la comunità yazida, comunità che nel 2014 aveva già dato, per mano dell’ISIS, ma quello è un genocidio ignorato; la comunità, che non supera i 300.000 individui, vive in due aree dell'Iraq: i monti del Gebel Singiār (al confine con la Siria) e i distretti di Badinan e Dohuk (nord-ovest del Paese) e ha subito, da parte dell’ISIS, violenze di una crudeltà inaudita. A tutto questo si è aggiunto Recep Tayyip Erdogan, che, da diverso tempo, aveva messo in conto l’attacco, tant’è che sia lui che il suo primo ministro, Binali Yildirim, anche leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, lo avevano annunciato da mesi. I motivi, al di là di ogni dichiarazione ufficiale, sono quelli di sempre e su tutti rimane prioritaria la distruzione dell’intera comunità curda, perché il movimento di liberazione di quel popolo, organizzato in una serie di sigle, (circa una decina) a partire dal PKK, passando per l’HPG (suo braccio armato) e l’YJA-Star (unità combattenti esclusivamente femminili), è una delle cose che il nuovo sultano turco, proprio non può sopportare, una spina nel fianco che mal si concilia con l’immenso potere che Erdogan ha sin qui acquisito e soprattutto, ancor peggio si concilia con quello che intende ancora acquisire, per cui due curdi morti sono meglio di un curdo vivo. 

L’attacco aereo avrà sicuramente sviluppi con operazioni da terra, perché in genere funziona così: prima gli aerei e poi i carri armati, carri armati che per il momento la Turchia sta ammassando al confine con l’Iraq, senza trascurare di potenziare la presenza delle proprie truppe nella regione autonoma del Kurdistan nel nord dell’Iraq. Ovviamente, in tutto questo, quello che rimane assordante è il silenzio degli “occidentali” (i cosiddetti paesi civili) che avevano accennato timidamente a qualche preoccupazione per gli yazidi quando si è trattato di giustificare la vendita di armamenti all’Iraq. È chiaro che anche qui la situazione è di quelle talmente ingarbugliate e contorte che diventa difficile tracciarne un racconto; sì, perché uno dei macellai che Erdogan utilizza in zona è un curdo-iracheno, uno dei tanti signori della guerra che tiranneggiano in quelle contrade, un tale Masʿūd Bārzānī, presidente della regione del Kurdistan iracheno, il quale, per scannare quelli che alla fin fine sono curdi come lui, anche se un po’ diversi, usa dei panzer tedeschi, carri armati, dei quali magari ci si chiede come possano esser finiti lì, ma questa è un’altra storia, che però, proprio a voler esser impertinenti, si può raccontare facendo un pensiero ancora più impertinente, ossia che quei carri magari, siano la conseguenza del “Flüchtlingsdeal” che è l’altisonante nome dato all’accordo sui rifugiati stipulato da Germania ed EU con la Turchia, fortemente voluto e sponsorizzato dalla signora Merkel, accordo per il quale, qualche maligno ha detto che alla fin fine la cancelliera se ne fregava dei rifugiati, ma che era necessario per salvare il suo cancellierato, altrimenti messo in pericolo per la propaganda elettorale da una “immigrazione illegale e incontrollata” (in altri tempi aveva aperto ai profughi siriani nella convenienza che il capitalismo sempre si ritrova nel profitto di forza lavoro da poter schiavizzare). 

È inutile girarci intorno, le cose vanno dette così come sono: in questo momento Erdogan ha buon gioco, coloro che potrebbero fermarlo non lo faranno per motivi e interessi diversi: Putin perché è socio in affari, gli USA perché i turchi sono alleati strategici (anche se è chiaro a tutti che Trump e Erdogan non si amano), la Francia perché ha interessi altrove ed è nell’affanno delle presidenziali e poi perché da sola non ne avrebbe le forze, la Germania, infine, che ha fatto la propria mossa e dove il prossimo obiettivo della cancelliera sono le elezioni che al più tardi ci saranno nell’autunno di quest’anno, quindi praticamente subito. Diventa piuttosto semplice, stando così le cose, ipotizzare che le bombe della notte del 25 aprile siano premonitrici di tempi difficili e in questa sorta di racconto dell’incubo, uno degli attori primari rimane lui, il sultano Erdogan, che vuole consolidare la sua dittatura all’interno della Turchia e ampliare il suo potere all’esterno, in modo da essere arbitro dei destini dell’intera regione. 

È ovvio che, per un progetto così ambizioso, il movimento di liberazione curdo sia un pericolo, per cui, più di una volta, Erdogan, riferendosi ai curdi ha ribadito di volerli “annientare” e in questo ha trovato complice il silenzio di tanti e soprattutto il silenzio della stampa mondiale nei riguardi dei massacri perpetrati, lo scorso anno, nelle città turche di Cizre e Nusaybin, luoghi in cui non si è nemmeno fatta la conta delle vittime civili.

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